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Le Luci dell’Europa. Capitolo III 🇮🇹
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Le Luci dell’Europa. Capitolo III 🇮🇹

La crisi della coscienza democratica

Sylvia Durand
Dec 29, 2021
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La Rissa dei musicisti

Nell'istante in cui l'imperatore di Germania apparve sullo schermo, scoppiò nella sala un coro di fischi e di grida. Gridavano e schernivano tutti, anche le donne e i bambini, come se si sentissero tutti personalmente offesi. Quella brava popolazione di provincia, la quale certo non sapeva di politica altro che le notizie dei giornali locali, pareva di colpo impazzita. Rimasi atterrito sin nel profondo del cuore, poiché m'accorsi sino a che punto era già arrivato l'avvelenamento di una propaganda d'odio capace di eccitare contro il Kaiser e la Germania anche i più ignari cittadini e soldati, così che bastasse una fugace immagine sullo schermo per provocare simili sfoghi. (...) Fu solo un istante, ma sufficiente a mostrare quanto sarebbe stato facile nel momento di una crisi, dall'una e dall'altra parte, eccitare le popolazioni, ad onta di tutti i tentativi d'intesa, di tutti i nostri sforzi leali.

Il Mondo di ieri. Ricordi di un Europeo, Stefan Zweig, “Luce e ombra sull’Europa”.

Per introdurre questo aneddoto, successo all’alba della Prima Guerra Mondiale in un piccolo cinema di provincia francese che trasmetteva le notizie, Stefan Zweig ci anticipa che “è sempre, come si sa, ben più facile ricostruire i fatti di un'epoca che non rievocarne l'atmosfera spirituale. Questa si manifesta non tanto negli avvenimenti ufficiali quanto piuttosto in piccoli episodi personali simili a quelli che vorrei qui inserire.” Anche se non definirei l’assalto al Campidoglio dello scorso Gennaio un piccolo episodio personale, mi sembra che l’avvenimento possa evocare qualcosa  dell’atmosfera spirituale del nostro tempo. 

L’esasperazione e il risentimento dell’opinione pubblica aveva trovato - più che un’espressione - uno sfogo tutto suo, ormai nella discussione politica. Opporsi, prendere posizione in questo dibattito, premette di condividere spazio di scambio ideologico, di pensieri: un campo di comunicazione tra le parti. Ma la rabbia oggi non è da nessuna parte, di nessuna ideologia, non mira più a negare argomenti specifici, ma la legittimità istituzionale stessa e la funzione di rappresentazione democratica. Il simbolo del disprezzo per questo ordine giace tutto qui, in un assalto che di colpo fa rinascere la vecchia dialettica tra civiltà e barbarie.

Tutto sommato, ci siamo abituati a questa violenza simbolica, alle costanti istigazioni insurrettive della propaganda d’odio, e anche se a volte siamo rimasti agghiacciati da certe dichiarazioni, sembrava fare tutto parte del solito show mediatico e ci mettemmo il cuore in pace pensando che tutto sarebbe rimasto ben chiuso nella sfera del possibile-ma-ancora-non-reale. Che qualcuno irrompesse fisicamente - proprio come i barbari - nelle stanze del potere legittimamente stabilito, si poteva vedere solo nelle rievocazioni un po’ goffe della Rivoluzione russa del National Geografic, di certo non al TG. Per questo, quando è apparso l’ormai famoso uomo-bufalo con la sua orda alle spalle per proclamare l’ordine nuovo - un ordine che avrebbe definitivamente calpestato non solo figurativamente ma letteralmente lo spazio democratico -, sembrava una scena surreale. Per me la spiegazione più probabile era che fossimo stati indotti in un'ipnosi collettiva. 

Ci saranno scatti sicuramente più iconici, ma l’immagine che mi ricorda più vividamente il carattere farsesco di questa tragica è il sorriso beffardo di quell’uomo che si porta via le reliquie dell’ordine destituito, salutando anche la videocamera per la posterità. 

A rendere affascinante quella fotografia è l’abisso spaventoso tra la leggerezza goliardica di quello che appare come un bambino sconsiderato e la drammaticità dell’evento in corso. E’ il momento in cui la farsa e la tragedia coesistono e il senso storico si trova ancora sospeso tra le due: potrebbe tornare tutto all'inconsistenza di uno scherzo infelice o diventare un punto di rottura storico. Qualunque fosse stato l’esito, ormai l’oscillazione tra queste due possibilità era già un sintomo grave da prendere in considerazione. 

Sull’essenza del ridere - e di questo in particolare - uno scritto di Baudelaire mi è tornato in mente. Anche se non è passato alla posterità per il suo senso dell’umorismo, colse qualcosa di fondamentale: la natura del ridere - ci dice Baudelaire - è diabolica, è da sempre la prerogativa dei pazzi, o comunque di chi può staccarsi dalla realtà per diventarne un osservatore e goderne come se fosse uno spettacolo comico. Il potere di derisione è negli occhi dell’uomo che vede e ride, non nella scena comica. Di fatto a pensarci logicamente, avrebbe qualcosa di contro-sensato una scena comica senza nessuno che ne rida. E di per sé quindi, ridere DI qualcosa o di qualcuno implica una (non così velata) gerarchia: c’è chi ride e chi è deriso. Chiedetelo pure ai vostri amici suscettibili che cosa non apprezzano del vostro senso dell’umorismo quando si applica a loro. Non che mi possa immedesimare più di tanto, ma se dovessi fare lo sforzo di mettermi nei loro panni, mi infastidirebbe l'impertinenza di quel celato ed indefinito senso di superiorità. Per esempio - ci spiega Baudelaire, che come sapete era un uomo pratico - raramente è l’uomo che cade dal marciapiede a ridere della propria disgrazia, invece è spesso e volentieri il suo osservatore illeso che può permettersi l’insolenza di riderne. Beh, diciamocelo, è in effetti un pò irritante...

Nel clima decadente di questa marcia sul Congresso, il nostro personaggio assume un'espressione tanto più satanica che il suo ridere sembra beffarsi della de-caduta di un sistema di regole. Storicamente i declini corrispondono a dei momenti tragici: di solito c’è una guerra o un derellittamento morale progressivo e poi sparisce una civilizzazione, grosso modo. Ma non in questo caso: così come Baudelaire ride del maldestro passeggiatore che cade per strada, anche la de-caduta delle nostre istituzioni legali sembra un’attività dilettevole. Un po ' come tutti noi, alla fine anche i bufali just wanna have fun, come diceva la canzone. Il potere sovversivo di questo comico assoluto consiste proprio nel ribaltare la scala dei valori comunemente condivisi e nel rendere inconsistente la gravità dell’evento: quello che è tragico diventa spassoso, quello che era istituito per legge sarà ora controllato per la forza. L’autorità una volta de iuris decade davanti ad un riequilibrio dei poteri de facto. Certamente, l’avvenimento è stato evidente e rumoroso un anno fa durante l’assalto al Campidoglio, ma attraverso la costante polarizzazione delle forze politiche, la violenza esercitata dalla polizia, è tutta l’etica democratica e il senso delle istituzioni che viene beffata quotidianamente. Lentamente e impercettibilmente, nelle strade, negli Stati Uniti ma anche in Europa: la crisi della coscienza democratica sta avvenendo e sta sconvolgendo le fondamenta dei nostri riferimenti politici e legali. Praticamente, è tutto il nostro ecosistema culturale ed istituzionale che trema nello spasmo di quel ridere. 

Un’altro burlone inquietante è il personaggio rappresentato da De La Tour, nel suo dipinto La Rissa dei musicisti. Dai protagonisti di questa scena diurna indoviniamo che ci siamo spostati nei quartieri popolari, tra i musicisti di strada e i mendicanti. Nella parte sinistra del quadro è raffigurato in primo piano un vecchio cieco vestito di stracci di iuta, mentre dietro di lui un’altra vecchia, che sembrerebbe anch'essa cieca, rivolge all’occhio dell’osservatore, un sguardo vitreo pietrificato. Al centro accade l'avvenimento: si tratta di un conflitto che oppone il vecchio ad un flautista, ma non si capisce da dove provenga l’attacco. Mentre uno impugna un coltello da una mano e dall’altra la manovella, l’altro brandisce minacciosamente il suo flauto, cercando di sparare del limone agli occhi del (forse falso) cieco, per smascherarlo. Come al solito la rappresentazione di De La Tour è estremamente dinamica, la messa in scena dei movimenti ed il loro realismo infatti le hanno valso un’attribuzione iniziale al Caravaggio. C’è clima teatrale anche qui, un tono da commedia dell’arte che viene rinforzato dalla disposizione dei personaggi che compongono quello che sembrerebbe uno spettacolo di burattini. Dalla parte destra invece, un beffardo violinista ci interpella direttamente con uno sguardo complice - da spettatore a spettatore, s’intende. I suoi abiti indicano una posizione sociale leggermente superiore a quella dei suoi compagni, mentre dal suo atteggiamento, si capisce che niente di quel dramma in corso lo riguarda. Ma sembra comunicarci che questa “guerra dei poveri” è divertente da vedere dalla sua distanza, come a dire “godetevi anche voi lo spettacolo”, facendo così da contrappunto perfetto alla vecchia inorridita che si trova all'estremo opposto. Non a caso, anche lei guarda nella direzione dell’osservatore, ma la sua espressione è di spavento, come quella di Stefan Zweig davanti alla folla sbraitante che chiedeva la morte di Guglielmo, nella citazione di introduzione. Due interpretazioni inquadrano quindi questo evento, come due possibili significati tra cui oscilla il senso della violenza di questo dipinto: uno è tragico e l’altro comico.

Come in quella scena, anche i nostri bufali ridono della loro propria violenza. Da Arlecchini mascherati, confondono i generi e invertono allegramente l’ordine morale: quello che stanno compiendo è tanto comico quanto tragico proprio perché in questo capovolgimento è bene quello che è il male e viceversa. La natura del comico assoluto - ci dice sempre Baudelaire - è quindi di una grande violenza morale: il suo potere sovversivo risiede nell’abbattere - non solo le porte del Congresso, ma soprattutto - il limite sacro tra bene e male, tra la legittimità di diritto e quella di fatto, tra elezione democratica e colpo di stato. 

Il fenomeno di brutalizzazione della vita politica e la sua conseguente polarizzazione affondano le proprie radici in un ecosistema intellettuale e mediatico tossico, che si avvale sempre di più del concetto di stato di urgenza per indebolire lo stato di diritto e la legalità. L’idea che ormai si è arrivati ad una situazione che richiede per forza di cortocircuitare le istituzioni viene inoculata nella mente collettiva per modificare strutturalmente la percezione della realtà così come le capacità di giudizio. Forse sono proprio quelle istituzioni ad averci portato a questo limite, qui ci vuole una rivoluzione! siamo in guerra! Le costanti istigazioni insurrettive della retorica demagogica non solo aizzano l’ira ma soprattutto giustificano la rabbia come risposta politica. Un gioco di prestigio trasforma magicamente gli istinti in vere e proprie opinioni, sostituendo la frustrazione al processo di deliberazione razionale che dovrebbe essere il voto. E’ significativo, ad esempio, che in Portogallo sia ormai possibile votare “Basta” (Chega), che - come i migliori shampoo - ha il vantaggio di essere 3 in 1: partito, programma e slogan, la rivoluzione ad un costo mai visto!

Siamo costantemente tormentati dai soliti demoni: l’immigrazione incontrollata, la politica di fiscalità impraticabile, tutte circostanze così dette eccezionali che ci autorizzano ad instaurare un potere eccezionale, al di là del quadro legale: “Se un datore di lavoro deve evadere le tasse per sopravvivere non è un evasore ma è un eroe” diceva qualcuno. Nell’immaginario collettivo del secolo passato lo stato di urgenza era un principio abbastanza grave perché era intimamente legato allo stato di guerra - o alla sua imminenza - e comunque ad un evidente ed indiscutibile minaccia nazionale. Da vent’anni a questa parte, l’idea si è notevolmente estesa. L’urgenza delle nuove situazioni ed il panico che ne consegue hanno, di fatto, ammesso nuove condizioni per il concetto di regime di eccezione - e di sicuro la pandemia è quella meno obiettabile di tutte. Quando Hannah Arendt ne parla con Roger Errera nel 1973, è appena successo lo scandalo del Watergate: “Questa ossessione della sicurezza nazionale proviene direttamente dal concetto di ragione di stato, ma non è più un’eccezione alla regola. Non dicono ‘siamo in una tale situazione d’urgenza da dover piazzare cimici dappertutto’, qui le cimici fanno parte del processo politico normale (...) L’intrusione della criminalità nella vita politica è un tratto caratteristico del nostro tempo.” Un'altra distinzione fondamentale di Hannah Arendt per appoggiare questa riflessione è la differenza tra autorità e forza. Semmai un autorità - mettiamo un governo - dovesse arrivare a dover chiedere il sostegno di qualsiasi tipo di forza - esterna o interna - allora decadrebbe la sua autorità per questa medesima necessità. In altre parole, non possono coesistere: la violenza annulla l’autorità. Non si può essere al contempo un potere legittimo ed un bullo. Quando la violenza alla regola - e poi la violenza tout court - si alloggia nel cuore della cultura politica, l’impatto risuona, come sempre, ben al di là di essa, nella società e nell’atmosfera spirituale dell’epoca.

La conseguenza più lesiva di questa crisi della cultura consiste nel fatto che a questo modello di azione corrisponde un paradigma di pensiero e di ragionamento collettivo. Modificando aspetti strutturali del rapporto alla politica, lo schema della violenza sconvolge le modalità di espressione e di implicazione dell’elettorato nella vita pubblica. La polarizzazione politica si trasforma quindi ineluttabilmente in una polarizzazione dell’opinione pubblica. Diffidente, esasperata, la presa di posizione cerca il contrasto e tende ad esacerbarlo caricaturalmente per semplificare e trasformare l’opinione contraria in una minaccia esistenziale o - spesso e volentieri ultimamente - nazionale. La pluralità delle opinioni e la pratica democratica del dialogo, dello scambio (civile) di idee premette una condivisione ed una disponibilità intellettiva che sta scomparendo dalle nostre pratiche di dibattito. Invece di arricchire lo scambio ed aprire le mentalità, il dissenso è diventato ormai solo ed esclusivamente scontento e si manifesta sintomaticamente sempre più al di fuori dei canali istituzionali, come per invalidare la loro funzione. Così il populismo si traveste nella voce del popolo.

La violenza si è diffusa nella nostra maniera di concepire e di prendere posizione: c’è più radicalismo, tante verità assolute, non negoziabili né discutibili e sempre meno idee. Argomenti che non ammettono contro-argomenti né critiche. Voci che ragionano da sole senza riscontro e senza dialogo. La trinità logica del pensiero (tesi-antitesi-sintesi) si è ridotta ad un'unica affermazione che non prevale più tramite la forza dialettica ma con l’urlo e poi con la forza tout court. La cultura della messa a confronto e del dialogismo ha lasciato spazio a nuovi costumi retorici. Convincere rivolgendosi alla capacità deliberativa e razionale di ciascuno di noi è dispendioso e molto meno redditizio a livello elettorale rispetto a fomentare odio, arringando ed infantilizzando le masse. Abbiamo poco a poco disimparato l’iter lungo del pensiero complesso: la messa in dubbio delle proprie idee, l’ascolto delle riflessioni altrui, il distacco razionale rispetto alla frustrazione ed all’ira istintiva. In queste rinunce sta la vera crisi culturale dei nostri tempi: come la coscienza democratica metabolizzerà la minaccia demagogica?

Per ogni fatto eclatante come quello della notte dell’ultimo 6 Gennaio, c’è uno sfondo sordo, anonimo, un clima che si prepara nel silenzio della rabbia quotidiana e strumentalizzata della gente. A volte porta partiti estremisti al governo, altre volte invece sfonda le porte del Congresso. Chi può dirlo? La vita è come una scattola di cioccolatini, no? Una cosa è prevedibile però: la rabbia instillata nel processo di espressione e di posizionamento politico determina un nuovo modello culturale e sociale. Come si polarizza il paesaggio politico, si polarizza anche l’elettorato, schierandosi sempre più fuori dal campo di dialogo per entrare  in un vero e proprio campo di battaglia. Ne va della sicurezza di stato, dell’esistenza nazionale, insomma tutto questo merita bene di sacrificare qualche regoletta e se dobbiamo rinunciare al contratto sociale democratico per salvare la patria, così sia! A quanto pare i delinquenti di oggi saranno gli eroi di domani. La patologica miopia dei totalitarismi, ci avverte Hannah Arendt, nasce dalla negazione del principio di realtà che genera un’iperinflazione dell’ego nazionale. Ricordate la lunga ed imbarazzante contestazione dell’esito elettorale dell’anno scorso negli Stati Uniti? Quelle dichiarazioni da cattivo perdente ed il narcisismo trumpista avevano raggiunto allora un livello psicotico che fino a poco prima del 6 Gennaio faceva sorridere, un po ' come quel violinista che in disparte si burla del grottesco della rissa di De La Tour. Ma se qualcosa ci insegna quello scatto del diabolico volto arancione che si porta via il pulpito del Congresso, è che ride bene chi ride ultimo.

Questo evento rivela quanto la brutalità generata dall’ira oltrepassi i limiti del gioco di provocazioni che regolamenta lo spettacolo politico. La tensione che nasce dal fenomeno di polarizzazione dell’opinione tende invece a traboccare dal bullismo e dalla propaganda demagogica per flirtare sempre più pericolosamente con la possibilità di un conflitto reale. Ma questo non è più una caratteristica dei barbari oltre Atlantico, anche in Europa la nuova comunicazione politica ha inquinato il dibattito pubblico. Discorsi ufficiali, interviste, tweet: più si va di caricatura e di dismisura, più ci si assicura l'ascolto. I media lo sanno: l’attenzione dell’elettorato va orientata e guidata, poco importa se per questo è necessario destabilizzare l’equilibrio dello scambio. Anche se l’estremismo è una forza autoproclatamente sovversiva, è sotterraneamente che ridistribuisce le carte e confonde il panorama politico. In un ambiente tossico, dove il dibattito non può che deviare, anche i partiti tradizionali si radicalizzano per sopravvivere in questo nuovo panorama politico. Tra il dire e il fare non c’è sempre di mezzo un mare, molti ne sono consapevoli: dalla democrazia all’autoritarismo spesso si glissa impercettibilmente sotto il chiasso delle battaglie mediatiche. Ma è pur sempre vero che stiamo testimoniando un distacco progressivo dell’elettore dal suo governo, che il processo delle istituzioni mette in opposizione il Sistema ed il Popolo - e di sicuro i giudici non sono imparziali. Il populismo non va affrontato rinunciando ai valori dialettici della democrazia per allinearsi sulla violenza dei suoi codici linguistici. La polarizzazione si combatte con strutture politiche che siano in grado di re-instaurare il rapporto diretto tra l’elettorato e il governo, con un potere locale che possa agire e rappresentare i suoi votanti. Arginare il rischio dell'estremismo significa ridare allo stato di diritto la sua legittimità costituzionale, a strutturare uno spazio per il dibattito pubblico che restituisca agli argomenti di società la loro dignità.

Quella che Paul Hazard chiamava La crisi della coscienza europea del primo settecento descrive perfettamente il cambiamento di assetto mentale che si sta producendo all’alba di questo secolo. Anche se lo sconvolgimento culturale e morale che ha fatto emergere la civiltà del diritto e dei Lumi tre secoli fa sembra proprio il contrario di quello che sta accadendo oggi, ci sono - anche adesso - forze vitali e progressiste che si muovono, un’effervescenza delle idee, una curiosità viscerale per il mondo di domani. Ne da l’esempio il bellissimo progetto di Arte e France Culture: Et maintenant? Le festival international des idées de demain”. L’iniziativa consiste nell’analisi di un questionario di 129 domande rivolte alle nuove generazioni, proprio per dare voce alle idee ed alle preoccupazioni di quelli vivranno nel mondo di domani. Oltre a proporre una fotografia dello stato sociologico presente, credo che questa iniziativa evidenzia soprattutto un modello alternativo per i media di impegnarsi nella vita pubblica: è possibile dunque agire come radio, come canale TV per ristrutturare il dibattito pubblico e rafforzare la riflessione collettiva. Abbiamo già parlato del mondo che sogniamo: uno più sostenibile, più civile, più genuinamente - e non ingenuiamente - gentile tutto sommato, dove tutti i cittadini riprendano coscienza di far parte di una comunità di persone, di beni e di valori. Un mondo dove il palcoscenico e la vita politica saranno separati per bene, dove i bufali rimarranno nei loro prati e i folli nei loro manicomi, oppure al teatro, al cinema: ovunque tranne che al TG. 

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